I CARE

Il gruppo riparte dalle domande rimaste in sospeso l’ultima volta. Dal film “Il ragazzo con la bicicletta” avevamo assistito ad un papà “assente” che chiudeva la porta in faccia al figlio Thomas, dopo avergli venduto, tra l’altro, l’amatissima e fondamentale (per quale adolescente non lo è?) bicicletta. Un atteggiamento condannato da tutti però concreto e plausibile. Un po’ come le nostre storie in cui non sempre prevale il senso di responsabilità. Socrate sosteneva che i pensieri sono i figli degli uomini e spesso questi figli vengono abbandonati, appena nati. Nessuno è immune dall’essere un pessimo genitore, nessuno può ritenersi totalmente coerente a se stesso.

Lo canta Fabri Fibra nella sua canzone “Stavo pensando a te”, in cui racconta di una cosa bella, un amore giovanissimo, che va troppo veloce e che genera, già proprio così, genera, qualcosa, forse qualcuno. “Ma io, ora, un figlio non lo voglio proprio, cercavo solo del vino rosso!” Come reagire di fronte all’inatteso? Stavo pensando a te. Sul serio mi stai pensando?

Scoprire di non essere proprio dei draghi non è facile. Abbiamo criticato il papà di Thomas che, prima, gli vende la bicicletta e, poi, gli chiude la porta in faccia, ma non è affatto facile convivere con i propri pensieri, con i propri figli, generare parole cariche di senso. Molto più semplice sarebbe andarsene, rinunciare, fare finta che, dare a qualcun altro la colpa.

Su suggerimento di una prof di italiano della nostra scuola leggiamo un frammento tratto da libro “Questa libertà” dello scrittore friulano Pierluigi Cappello in cui si affronta il tema del rapporto profondo tra dei versi, e che versi, (si tratta di Eugenio Montale!) e il lettore che ad essi si avvicina e da essi viene sedotto:

“meraviglia /
com’è tutta la vita e il suo travaglio /
in questo seguitare una muraglia /
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.”

“I quattro versi non uscirono zampillanti, lucidi e in un colpo solo, così come li riporto adesso sulla pagina: affiorarono un poco per volta. Dalla nebbia, come il profilo di un’isola misteriosa. Solo l’ultimo risalì la memoria tutto intero, il resto si agganciò a parole forti come “meraviglia”, “travaglio”, “seguitare”, finché la catena di suoni si ricompose, proveniente da chissà quale pomeriggio trascorso in sala studio quando ero in collegio. Così il muro, che poi seppi cingere un magazzino dei Monopoli di Stato, fece irruzione nella poesia di Montale, dando concretezza a quei versi che, a loro volta, ne illuminavano la superficie bruta in cemento armato, i ferri dentro la pancia del cielo, i cocci di bottiglia battuti dalla luce. E l’impressione che quelle parole fossero state scritte proprio per me, rompendo la solitudine di quel preciso momento in cui venni tentato dall’appoggiare la fronte sul vetro, diventò il sangue e l’ossigeno che attraversavano la mia carne, lasciandomi l’idea che, in qualche caso, il dolore può essere compreso.

Che il dolore può essere portato dentro intatto e inoffensivo, come un proiettile che si è fermato accanto al cuore e che nessun chirurgo è stato capace di estrarre. Tutto qui, se si ha la fortuna che le parole ti vengano incontro e che, nella comprensione, sciolgano il nodo del male in una forma di desolata serenità che ti accompagna per il resto della vita. Io quella fortuna l’ho avuta. Le parole, con me, si sono sempre fatte avanti, lasciandomi ogni volta interdetto, come da ragazzino, quando la mia ombra rimase ferma sull’asfalto dell’estate mentre vedevo, negli alpini che passavano davanti ai miei occhi, i soldati di Hemingway diretti al fronte.”

(tratto da “Questa libertà” di Pierluigi Cappello)

Dopo aver letto il brano ogni membro del lab è chiamato a scegliere una parola, una frase, un passo che lo abbiano colpito. Non è gente banale quella del lab. La filosofa tedesca Anna Arendt sosteneva che dalla banalità, dal mancato allenamento della capacità critica nascessero la malvagità, la perfidia  e la crudeltà del regime. Aveva ragione, e i ragazzi del lab invece hanno compreso, e lo hanno sottolineato, che come da un travaglio nascono i pensieri e che essi fanno parte di noi, ci costituiscono, ci consolidano, le parole si fanno avanti e ci consentono di convivere anche con l’errore, anche con il dolore. Don Lorenzo Milani, nella sua scuoletta di campagna, a Barbiana, sulle montagne toscane, di fronte ai figli dei contadini che frequentavano le sue lezioni amava ripetere: “I Care”. Che, dall’inglese, significa: mi interessa, fa parte di me, me ne prendo cura. Come dei miei pensieri, come dei miei figli, come della mia vita.

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