QUASI

 

Oggi il gruppo dei filosofi del MAUS provvede a disegnare su di un grande cartellone il proprio uomo vitruviano: Luca è il modello della sagoma mentre Olimpia traccia il contorno col pennarello. Il risultato non è granché ma saranno i filosofi, di volta in volta, a collocare sul disegno del corpo le varie tappe del viaggio alla scoperta del proprio demone. Prima di affrontare il tema odierno tutti i filosofi più anziani che, per ragioni di tempo, non erano riusciti ad esprimersi in merito alla scelta tra una ricerca individuale ed una dialogica esplicitano la loro posizione. È interessante scoprire come la stragrande maggioranza di loro opti per il dialogo.

N., che è anche un tiratore di scherma, sostiene che senza l’avversario di fronte non potrebbe mai dare il massimo di sé, è l’altro che mi sollecita.

lab fil3 1920 L. si esprime per l’equilibrio poiché, afferma, non si può stare con gli altri se non si è capaci di stare con se stessi. C. si richiama ad uno scrittore famoso come Stephen King il quale sollecita sempre a prendere appunti sulla realtà che ci provoca: “prendi casa davanti ad una piazza, impara e poi ritirati e componi”. A., forte dell’esperienza familiare, esalta il rapporto parentale come palestra fondamentale per esercitare la ricerca di sé nel dialogo. B. pensa che un input dall’esterno sia fondamentale per costruire un senso di sé altrimenti si corre il rischio di fare come i criceti in gabbia di correre sulla ruota, faticare tanto, senza mai arrivare da nessuna parte. Secondo V. noi tutti siamo in perenne mutamento e per non perdere l’orientamento è fondamentale il confronto con gli altri. L., probabilmente influenzato da Aristotele, crede che l’uomo sia eminentemente un essere sociale e che, per questo, non possa fare a meno del gruppo. F. pur affermando il ruolo fondamentale del dialogo è convinto che sia sempre necessaria una rielaborazione tutta personale degli stimoli ricevuti. R. descrive le persone come degli ibridi, ovvero insiemi plurimi di caratteristiche importantissime. Per ricomporre e comprendere un tale mosaico prima di proporre e affermare diventa imprescindibile saper ascoltare. E. è una ballerina e teme l’effetto camaleonte, quelle persone che assumono le sembianze dello sfondo, per questo, al passo a due, molto complesso, preferisce l’assolo in cui può emergere tutta l’individualità.

La ricerca, sia essa introspettiva e solitaria oppure dialettica e relazionale, deve mettere in conto anche l’approdo in un non-luogo, una posizione di indeterminata incertezza in cui è molto arduo collocarsi e definirsi.

Per comprendere meglio l’assurdità di certi approdi guardiamo un brano tratto dal film del 2004  “The terminal” di Steven Spielberg.

Victor Naworski giunge all’aeroporto di New York dalla lontana Krakozia (immaginario stato dell’Europa dell’est) senza conoscere l’inglese ma con tanta voglia di tuffarsi nella Grande Mela. Giunto al desk di controllo gli viene ritirato il passaporto poiché, per colpa di un colpo di stato avvenuto mentre era in volo, esso non è più valido. Viktor è privo di identità e non può proseguire per la città. Per questo viene accompagnato nell’ufficio del direttore dell’aeroporto affinché gli venga spiegata la situazione. Non può andare né avanti né indietro: “Lei è inaccettabile”, dichiara il direttore, e quindi condannato a vivere nel limbo dell’aeroporto, nel “quasi” di una situazione precaria. Un luogo di transito, di passaggio, che rischia, come tante nostre esistenze, di divenire definitivo.

Ma cosa io faccio qui allora?” domanda Viktor al doganiere, che risponde: “Qui in aeroporto si può fare solo una cosa: Shopping!”

Siccome è proibito essere allora tanto vale avere.

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