Porti il fuoco dentro?

Il viaggio di Ulisse continua e veniamo condotti sull’isola dei Lestrigoni. Il poeta Kavafis, di cui avevamo letto la poesia “Itaca” il primo giorno di laboratorio, ci invitava a non averne paura, perché, comunque, essi, seppur esseri terribili, mostri cannibali che divorano le carni umane, non ci appartengono, non vivono nella nostra anima se questa, l’anima, guarda in alto, guarda altrove e aspira ad altre vette. I Lestrigoni, però, sono oggi i nostri interlocutori; con la loro inaudita violenza e ferocia, sono quella umanità che il filosofo inglese Hobbes non esitava a definire “lupi insaziabili”. Cosa ci dice oggi questo incontro terrificante? Una domanda scuote i ragazzi del laboratorio: chi è veramente questo uomo viaggiatore? Chi è il nostro compagno di strada? Quali sono i tratti fondamentali che ci fanno riconoscere l’umanità? Oskar Schindler, dialogando con l’efferato colonnello delle SS Amon Goth, definisce che ciò che caratterizza l’umanità è il potere. Quale potere? Quello di donare la vita o la morte. Dal celebre film del 1993 di S. Spielberg guardiamo una scena in cui questo potere si manifesta in tutta la sua implacabilità: il colonnello, dall’alto del suo terrazzino, spara arbitrariamente agli internati del lager, senza scopo, senza ragione, liberamente, per pura decisione razionale. Nel campo alcuni fuggono atterriti, altri fanno finta di niente e continuano a fare quello che facevano prima, la gente muore, colpita dalle fucilate gratuite di Goth.

 

Una domanda: da quale parte ti senti di stare? Con il colonnello, con i poveri prigionieri, lontano da tutto? Una ragazza afferma: è inutile far finta di niente. Ci riguarda, tutti. È questa, dunque, l’umanità? Guardiamo la scena finale del film: Oskar Schindler fugge dopo aver salvato dalla morte certa più di 1100 persone, e piange. Perché? Perché se avesse venduto la spilla d’oro, se avesse venduto l’auto, ne avrebbe salvati altri 4, forse 5,1100 non bastano. Non basta nemmeno la fede d’oro ricavata dai denti degli ex prigionieri con su scritta la celebre frase del Talmud (il catechismo degli ebrei) “Chiunque salva una vita, salva il mondo intero” che gli viene regalata come segno di riconoscenza. No, non basta! Non è sufficiente a definire questa come umanità.

Leggiamo una poesia scritta da uno dei componenti del laboratorio, si intitola “Al macello” e ci descrive un genere umano condannato ad essere scannato e appeso a dei ganci da macelleria. Inesorabile. L’ultima provocazione ci viene dal romanzo di Cormac Mc Carty “The road” divenuto, anche questo, uno splendido film. Un papà cerca di insegnare al figlio dodicenne cosa siano veramente gli uomini: non quelle belve feroci che divorano gli altri uomini, ma quegli esseri capaci di amare. Eliah, si trova solo, a 12 anni, sulla spiaggia. Il suo papà non c’è più a difenderlo dagli uomini cattivi, dai Lestrigoni. Un uomo, forse un altro papà, si avvicina sul bagnasciuga ed Eliah gli punta la pistola contro con l’unico colpo in canna disponibile e chiede: “Tu porti il fuoco dentro?”

 

AL MACELLO

Incatenato
Ad un mondo sprecato:
sopraffatto dal tatto.

Perduti gli altri sensi
non senti
più il rumore
e l’odore
di merda,
talmente abituato
ad un’agenda già scelta.

Tatuato col marchio
come le vacche,
marcio
il tuo uomo,
bruciate
le tappe.

Anch’esse già ornateMACELLO
da animali
già macellati:
carni stagionate
che segui pur sugli altari.

Sei chiuso
in gabbia,
sulla sabbia
sporca:
è un sopruso.

Osa
sporgere la bocca
dalla ringhiera
per ruggire,
e ti tagliano la gola.

Vi vogliono in schiera
vi vogliono morire
quando superi la tua prova.

Che prova?
Mangiare abbastanza
perché tu possa saziare
una stanza
di stronzi.
E crepare
è il tuo fine;
e la tua fine.

Vorrei che ci fosse una chiave
per queste prigioni
che chiamano vita.
ma son vane
le tue aspirazioni:
non c’è via d’uscita.