Esercizio del volto

  1. Immagini dello straniero (da una ricerca)

Il nome è il primo e fondamentale modo di rapportarsi con l’altro; dargli un nome, chiamarlo, è un modo di stabilire le relazione con lui. Si può: imporre un nome attingendo al nostro dizionario dei nomi oppure accogliere il nome che egli si dà. Un giovane immigrato racconta. Un italiano, parlando con lui, dice: «ho affittato una casa a un marocchino nero che arriva dal Senegal». Continua il racconto, dicendo: «Io mi sono stupito e gli ho chiesto perché per lui, come per quasi tutti gli italiani, gli stranieri sono sempre marocchini anche se vengono dall’Algeria, dal Senegal, dalla Tunisia». Vi è una negazione dell’identità, spesso involontaria, ma non per questo meno dolorosa per chi la subisce.

Questo si spiega perché nella nostra prospettiva del mondo, l’immigrato marocchino è il simbolo dell’Africa. Questo tipo di interazione richiama o processo cognitivo fondato su stereotipi, cioè attribuire ad una vasta categoria di persone i caratteri di qualche singolo di cui abbiamo fatto esperienza oppure ad attribuire ai singoli caratteri propri di una categoria di persone, senza verificare se tali caratteristiche siano effettivamente possedute dalla persona con cui abbiamo in quel momento il rapporto.

La formazione degli stereotipi dipende dalla visibilità. Alcuni gruppi sono più visibili di altri, sia per le azioni clamorose compiute (criminalità; arrivi di massa; casi pietosi di povertà ed emarginati), sia per la differenza culturale rispetto agli italiani. Quando si parla di immigrati, i nomi più ricorrenti sono, nell’ordine, albanese, africano, marocchino, rumeno, extra-comunitario, nord-africano, slavo, tunisino, senegalese, filippino, cinese.

Nell’immaginario degli italiani l’immigrazione è associata a queste nazionalità. Nella realtà, invece, le cose stanno diversamente. Le nazionalità con una quota superiore ai 10.000 residenti con permesso di soggiorno regolare sono almeno 20

2. Lévinas e il volto

Per Lévinas la strada verso l’altro non è un lungo giro per arrivare a se stessi. L’incontro con l’altro non porta alla lotta (Hegel), non è un cammino nel freddo (come in Nietzsche) e nemmeno porta alla compiuta conoscenza di sé (come nella fenomenologia). Non è una strada verso il ritrovamento di se stessi, ma un esodo senza ritorno. Abramo ne è un esempio.

La strada verso l’altro non si fonda in un bisogno, poiché ciò presuppone che l’io sia incompleto e abbia bisogno di un’integrazione, come ammette il mito di Platone e con lui l’idealismo, ma nel desiderio, nella “brama” dell’altro. L’amore non può essere un mezzo dio come per Diotima nel simposio platonico, ma bisogna dire che la ricerca è più importante del possesso, il bisogno è migliore del godimento, il naufragio è più vero del trionfo, il dubbio è più perfetto che la certezza, la domanda va oltre la risposta.

Ma chi è l’altro? Come faccio a ridurlo alla sua essenza, come faccio a scoprine il fenomeno, come posso ridurlo a qualcosa a me rispondente? Per non ridurre l’altro ad un’idea generica, universale, ma inesistente, Lévinas parla dell’altro identificandolo con lo sfavillio del suo volto. Egli parla della nudità del volto che mi viene incontro, di “esposizione estrema”, di “inermità”, di pura alterità, non certo del genere, ma della singola persona nell’incontro. Solamente nel suo volto l’altro può essere a me presente. Nel volto io lo riconosco. Egli si consegna a me, io mi consegno a lui. Lo sfavillio è intenso, totale. Non permette una durata, ma mostra solamente una traccia. Per questo non vi è alcuna possibilità di assimilazione ed è esorcizzato il pericolo dell’identificazione. L’apparire del volto mi provoca, pretende risposta. Mi trascina nella responsabilità. «Di fronte all’altro l’io è infinitamente responsabile», dice Lévinas. Egli non punta in modo primario al mutamento delle coscienza, per reclamare in un secondo momento l’azione, ma incontro ed azione sono un’unica cosa: «L’intreccio con l’altro (ha) carattere etico». Di quale specie è questa azione alla quale mi “risveglia” il volto dell’altro e alla quale io “mi sveglio”? Lévinas acconsente già in partenza: il suo approccio è difficile. Il volto nella sua mortalità mi cita in giudizio. Mi fa conoscere la mia colpevolezza, pone in questione la mia autogiustificazione. In tale modo l’altro diventa mio maestro che mi insegna ciò che io nella mia essenza egoistica e atea non riesco a vedere: la possibilità della pace, della fraternità, della giustizia. La responsabilità non si ferma di fronte alla morte. La morte ha significato originale nella vera vicinanza dell’altro o nella socialità.

Il mistero della morte lo posso esperire solamente nell’accettare il dono estremo: morire per l’altro. Qui la responsabilità per l’altro giunge a pienezza: tutta la sua serietà e il suo dolore si trovano nell’«amore per il prossimo un amore senza concupiscenza».

Da dove proviene l’innovazione di Lévinas di radicalizzare l’altro come assoluta esperienza eteronoma? Da una parte dalla sua veemente rivolta contro l’egocentrismo della fenomenologia di Husserl e contro l’idealismo occidentale. Dall’altra, la necessità dell’azione solidale. Solamente «se metto in questione me stesso tramite l’altro divento solidale con l’altro in modo incomparabile ed unico».

Con Buber, Lévinas sa bene l’altro rinvia oltre se stesso. Nella traccia dell’altro mi viene incontro la traccia del totalmente Altro, cioè Dio. L’altro non è solamente il mio inferno, mi permette, invece, di bucare il cielo. Solamente se io riconosco che il passaggio dell’altro rimanda al passaggio di Dio la mia azione per l’altro acquista quella qualità che può essere indicata come “liturgia”, come “diaconia”. Lévinas cita due passai biblici nel libro la traccia dell’altro: Es 19 (Dio va incontro a Mosè) e Is 53 (il servo del Signore porta la nostra infermità). Questi testi mostrano cosa intende Lévinas per incontro e come l’afflizione sul volto dell’altro pone in gioco la mia responsabilità. Lévinas non fa appello alla coscienza. Invano cercheremmo esortazioni morali nella sua opera. Con la sua stringente argomentazione vuole condurre all’azione.

  • Dal Vangelo di Marco Mc 12,38-44

38Diceva loro nel suo insegnamento: “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, 39avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. 40Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa”.

41Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. 42Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 43Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Colletta della XXXII Domenica del Tempo Ordinario B

O Dio Padre degli orfani e delle vedove, rifugio agli stranieri, giustizia agli oppressi, sostieni la speranza del povero che confida nel tuo amore, perché mai venga a mancare la libertà e il pane che tu provvedi, e tutti impariamo a donare sull’esempio di Colui che ha donato se stesso, Gesù Cristo nostro Signore.